Le parolacce nella pubblicità: quando vanno usate e quali sono i contesti “giusti” in cui il loro significato può essere colto a pieno e senza polemiche?
Pubblicità e parolacce non sono un connubio troppo diffuso tranne in alcuni ambiti (in primis il sociale), anche perché usarle vuol dire maneggiare con destrezza la comunicazione -in pochi sanno farlo davvero-. Senza dubbio le parolacce vantano un grande potere persuasivo ed emozionale; sono associate a una forma di onestà, spesso legata a sentimenti spontanei come rabbia, sorpresa, ma anche gioia, per cui utili a enfatizzare un mood in maniera autentica. Di contro, possono causare imbarazzo nei confronti di chi le fruisce o suscitare indignazione quando il contesto in cui vengono inserite non le supporta in modo adeguato.
Nella vita quotidiana, comunque, sono molto diffuse e quindi non ci stupiamo quando le pronunciamo o le ascoltiamo uscire dalla bocca di altri; a fare la differenza è appunto il contesto e il canale di comunicazione (social, cartelloni, spot pubblicitari). Il turpiloquio nel marketing funziona solo rispettando questi parametri e rivolgendosi all’audience giusta, in grado di filtrare il significato del testo e riconoscere la parolaccia come parte integrante di un messaggio in cui ogni parola ha un peso, e spesso si associa o va in contraddizione con la parte visuale del contenuto.
Esempi di pubblicità con parolacce straniere
Uno degli esempi che mi piace di più è quello del KFC, che ha utilizzato la parola FUCK in un messaggio di scuse qualche anno fa, a seguito di un disguido che ha lasciato il ristorante a corto di pollo (il che suona anche un po’ assurdo visto che il KFC è tipo il Tempio del pollo).
In questo caso la formula del turpiloquio è stata abilmente camuffata scegliendo di cambiare la scritta KFC sulla confezione con FCK, un abile stratagemma che richiama la parola FUCK con lo scopo di esprimere un sentimento di genuino dispiacere nei confronti del pubblico. Lo scopo era scatenare una reazione empatica, mostrando senza filtri l’umore dell’azienda che con onestà si scusa attraverso un messaggio sincero, grazie al quale ha generato oltre sei milioni di impressioni.
Pubblicità e parolacce in Italia
In Italia le parolacce si utilizzano principalmente nelle pubblicità progresso, ovvero quelle con scopo sociale che incoraggiano comportamenti corretti.
Affascinante vedere come un messaggio dal contenuto “alto” spesso si avvalga di un linguaggio basso, proprio per creare un canale di comunicazione più ampio e recapitare un messaggio a quante più persone possibile. Queste campagne sono spesso commissionate o patrocinate da enti importanti come i vari Ministeri o dal Parlamento.
La scelta di parole forti all’interno di un messaggio sociale viene dal bisogno di scuotere l’opinione pubblica attraverso testi e visual impattanti, che aiutano a mettere in risalto tematiche all’ordine del giorno di cui spesso però ci si dimentica. L’importante è dosare il turpiloquio e usarlo con intelligenza, pertinenza e ironia, ragion per cui si dovrebbe studiare caso per caso il successo di una comunicazione rispetto a un’altra.
Facciamo qualche esempio partendo dalla prima campagna sociale con parolaccia inclusa datata 1994, creata per sensibilizzare sul tema dell’abbandono degli animali domestici e rinnovata spesso nel corso degli anni. Lo slogan recitava “L’unico vero bastardo sei tu che lo abbandoni”.
La parola “bastardo” assume una doppia valenza, come insulto ma anche come aggettivo per indicare un animale non di razza. In questo specifico caso l’utilizzo di un termine che si può applicare con connotazioni diverse all’uomo e all’animale favorisce un’interpretazione più profonda del testo, rendendo la pubblicità impattante e facilmente comprensibile a una fascia di pubblico variegata.
Un esempio di pubblicità con turpiloquio non troppo ben riuscito, invece, potrebbe essere quella datata 2011 con focus sulla violenza sulle donne, dal titolo “stai zitta cretina”.
Si tratta di una campagna sociale che però non ha colto nel segno a causa dell’interpretazione non proprio immediata del testo, associato all’immagine di una donna con la bocca cucita. Questo visual, unito a una frase minacciosa, va in qualche modo a rafforzare l’idea di violenza invece di scardinarla; l’uso della parole “cretina” in questo contesto non dà valore al messaggio che vorrebbe sostenere, anzi, lo rende confuso e angosciante.
Un altro esempio che invece ha centrato il bersaglio diventando virale in rete è la campagna “Coglioni NO” del 2014, uno slogan nato da un gruppo di creativi stufi di essere sottopagati per un lavoro considerato dalla società come un divertimento o un hobby, piuttosto che una professione riconosciuta.
“Siamo creativi, siamo giovani, siamo freelance e siamo lavoratori, non coglioni” questo recitava il claim insieme all’hashtag #coglionino: in questo caso la parolaccia va a rafforzare la protesta ed enfatizza il desiderio di ribellione dei creativi, stufi di vedersi presi poco sul serio.
L’ultimo esempio italiano che voglio citare è la campagna del 2014 realizzata da Armando Testa con il patrocinio del Senato e della Camera: lo scopo è incentivare la cultura della consapevolezza, e far riflettere sulle cosiddette differenze sociali che guidano alcuni comportamenti da parte di chi tende a giudicare gli altri in base alla provenienza geografica o il colore della pelle.
In questo caso l’unione di testo e immagini è potente perché mette in correlazione le parole con i proiettili, per sottolineare come le prime abbiano la stessa forza distruttiva dei secondi e possano ferire in modo molto più profondo di quanto sembra.
Dall’estero infine ti riporto una pubblicità tedesca del 2019 che recita “sembra una merda ma mi salva la vita”. Un’iniziativa patrocinata dal Ministero dei Trasporti a seguito di un incremento degli incidenti sulle strade a scapito dei ciclisti, con protagonista il casco ritenuto un oggetto brutto da indossare ma necessario per l’incolumità.
Di per sé l’idea sarebbe anche efficace, il testo è buono e il messaggio impattante, eppure la scelta di modelli giovani e carini ha messo in discussione l’inadeguatezza del visual rispetto al messaggio. Forse il discorso dell’oggettificazione sessuale a volte ci scappa di mano, ma in tanti hanno pensato sarebbe stato più appropriato scegliere testimonial più vestiti e meno “fighi”.